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Quinto giorno : i dilemmi della cucina kosher

Venerdi 7, nella piccola ma accogliente sede della comunità abrasiva di Varsavia, siamo stati introdotti nel labirinto della cucina kosher con il documentario ” The Kosher Dilemma” del regista olandese Jigal Grant,  che nel 2012 ha iniziato una scanzonata indagine su cosa esattamente comporti l’attenersi alle regole della cucina kosher, e quali tipi di dilemma ci si trovi ad affrontare quotidianamente.
Il documentario era diviso in una serie di capitoli, ognuno dedicato a uno specifico alimento base, arrivando a comprendere uova, carne di pollo, uva, pane , gefilte fisht -la carpa ripiena tipica della tradizione ebraica è che avrete sentito nominare in innumerevoli romanzi e film- e infine un ultimo, spassoso episodio sulla ricerca del “sapore del prosciutto”.
Il lavoro di Grant è particolarmente interessante perché offre spunti di riflessione che esulano dalla singola dinamica della cucina kosher e che dovrebbero riguardare anche i nostri costumi
alimentari:  ad esempio, le uova a guscio bianco sono da preferire perché è più raro che contengano grumi di sangue all’interno, rispetto alle uova a guscio marrone; tuttavia, le galline che producono le uova bianche sono preferibilmente allevate in batteria. Cosa diventa più importante allora:  rispettare il divieto della Torah verso il consumo di sangue, o il precetto che impone il rispetto verso gli animali? Lo stesso problema si pone quando si tratta della carne di pollo: la maggior parte del pollo kosher viene da allevamenti in batteria. Facciamo così la conoscenza del pollo Chaim,  selezionato da Grant in un allevamento organico per essere il primo ‘pollo kosher felice” e cambiare così il mercato della carne kosher.
Molto divertente è l’episodio in cui Grant esplora il mondo dei prodotti alimentari industriali al gusto di bacon,  alla ricerca di un cibo che arrivi il più vicino possile al sapore del prosciutto senza contenere maiale.

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Jigal Grant e il pollo Chaim

Il programma del festival è poi proseguito con un pomeriggio interamente  dedicato ai cortometraggi: ne sono stati proiettati cinque, di cui tre- “The Shadow Forest”,  “Games” e “Hammocks” – erano legati al tema dell’olocausto,  e gli altri due, “The Visit” e “Longing” raccontano vicende legate alla vita quotidiana in Israele.
Del gruppo di film legati all’Olocausto rimane particolarmente impresso per il finale  ” Games ” : ambientato a Zagabria, dove Klara, dieci anni, cerca in tutti i modi di contravvenire gli ordini della madre che le proibisce di andare a giocare in strada con gli altri bambini.
Al contrario di quanto crede sua madre, Klara capisce molto bene quello che accade intorno a lei, ma chiaramente lo interpreta come può farlo una ragazzina della sua età, interiorizzando ilnfqtto che la causa di tutti i problemi sono gli ebrei.
La sua animosità nei confronti della madre severa, e, al contrario, l’attaccamento al padre, la spingono a formulare un piano d’azione: quando la famiglia deve separarsi, chiede candidamente ai genitori di andare un’ultima volta al parco tutti insieme; una volta lì attira l’attenzione di un soldato tedesco e gli suggerisce di controllare i documenti della madre, e in questo modo ne provoca l’arresto .
Nell’agghiacciante finale, Klara, pochi minuti dopo l’arresto della madre, chiede tranquillamente al padre ” Ora potremmo stare insieme solo noi due e io potrò uscire a giocare, vero?”
Tuttavia,  le linee narrative non sono sufficientemente sviluppate: rimane il dubbio se Klara sia realmente consapevole di tutto il peso delle sue azioni, o se sia semplicemente una tragedia derivata dalla confusione infantile mischiata a elementi di complesso di Elettra.
Estremamente curato nelle immagini, “The Shadow Forest ” ha poi vinto il premio del Festival come “Miglior Cortometraggio”: senza fare alcun ricorso alle parole, ma attraverso il rapido succedersi delle azioni, racconta la vicenda di un cacciatore polacco che, uscito nella foresta per cacciare un lupo, assiste a un altro tipo di caccia, l’inseguimento di un gruppo di ebrei da parte dei nazisti con tanto di cani.
Alla fine, in un certo qual modo, lupo e cacciatore finiranno per unirsi contro i cacciatori di uomini, salvando così un bambino del gruppo dei fuggiaschi :  la presenza del lupo intimorisce i cani dei Tedeschi,  che esitano abbastanza da consentire al bambino di fuggire e di venire raccolto dal cacciatore.

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Una scena da ‘The Shadow Forest”

A coronare la serata è stato infine proiettato il documentario “The Green Prince”. Se riceveste il copione per un film drammatico in cui il protagonista è il figlio di uno dei maggiori capi di Hamas che diventa una spia al servizio di Israele,  e infine fugge negli Stati Uniti dove si converte al cristianesimo, lo giudichereste come minimo poco realistico.Eppure questa storia è accaduta realmente, e in ” The Green Prince ” viene raccontata a viva voce dai due protagonisti, Mossab Hassan Youssef e Gonen Ben Yitzhak.
A 17 anni, Mossab viene trovato in possesso di armi e arrestato;  per il servizio segreto israeliano avere nelle propri prigioni il figlio maggiore di Sheikh Hassan Youssef è una fortuna insperata,  e immediatamente gli  viene offerto di collaborare fornendo informazioni sulle attività del gruppo.
Per Mossab questo equivale al peggiore dei tradimenti, dato che sua padre ha dedicato tutta la sua vita all’organizzazione. Ciò che vede in prigione, però,  è il trattamento riservato dai detenuti appartenenti ad Hamas a coloro che sono anche solo lontanamente sospettati di collaborare  con Israele lo porta alla conclusione che forse è proprio l’organizzazione a tradire gli ideali di suo padre e i suoi sacrifici.
Decise di collaborare, e Gonen Ben Yitzhak diventa il suo supervisore e responsabile. Per oltre dieci anni Mossab collabora con Israele mantenendo allo stesso tempo il ruolo di braccio destro di suo padre,  contribuendo in questo modo non solo a limitare gli attacchi, ma anche a proteggere suo padre quando diventa costui si espone troppo.
Ma più di dieci anni di doppia vita finiscono per incidere un segno profondo sulla psiche di Mossab, che alla fine riesce a guadagnare un periodo di “riposo” che dovrebbe ufficialmente svolgersi in Europa, ma che lo porta invece sul suolo americano,  dove si converte al cristianesimo e infine pubblica un libro sulla sua esperienza. Ma anche se ha collaborato con Israele,  il fatto di essere figlio di uno dei capi di Hamas segna inevitabilmente il suo processo di integrazione della società americana:  la sua richiesta di asilo politico viene rigettata, esponendolo al rischio di un rimpatrio forzato che gli costerebbe la vita.
È a questo punto che Gonen interviene in difesa di quello che per lui da tempo non è più solo un collaboratore, ma un amico, e si presenta alla richiesta d’appello per l’asilo politico per testimoniare quanto sia stata importante l’attività di Mossab nella prevenzione degli attacchi e nel limitare il numero delle vittime di entrambi i lati del conflitto.

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Da sinistra : il regista Nadav Schirman,  Gonen Ben Yitzhak e Mossab Hassan Youssef alla premiere di “The Green Prince” al Sundance Film Festival

Se avete voglia di gare una doppietta,  vi consiglierei di guardare “The Green Prince ” insieme a “From Above and Beyond”: insieme possono costituire un corso accelerato della storia del conflitto israeliano palestinese, e non forniscono risposte preconfezionate, ma nuovi strumenti per meglio costruire la nostra comprensione della situazione in Medio Oriente.